Dear white people – La serie che non capisco ma divoro

Quando quasi due anni fa iniziai a sfruttare l’account Netflix del mio ragazzo questa fu una delle prime serie che guardai, dopo Glow, Le ragazze del centralino e Grace e Frankie (sì, ho mandato i tilt l’algoritmo di quell’account e ora il colore che prevale è il rosa confetto).
Ad attirarmi fu soprattutto la locandina con questa bella ragazza mulatta e la carta da parati barocca.
Ovviamente mica lessi la trama o guardai il trailer. No, per carità, feci partire subito il primo episodio e così invece di ritrovarmi nel profondo sudamericano tra proteste e manifestazioni (come mi aspettavo), eccomi a guardare una serie tv su figli di papà neri che nonostante frequentino un college assurdo si lamentano.

Non so bene dire se questa serie sia ben fatta e meriti. Innanzitutto perché non ho ancora capito, dopo tre stagioni, se a me piaccia. Insomma mi sono accorta di guardarla in maniera molto passiva. Accendo il telefono, metto le cuffie, e mi faccio colare addosso i mille e velocissimi dialoghi pieni di parole che non conosco che questi ragazzi si scambiano.

Non vi è poi una storia principale. Lo schema con cui si sviluppano gli episodi cambia da stagione a stagione. Tutto appunto si svolge in questa università, la Wintchester. Come ogni università americana ha le case degli studenti e qui quella presa in considerazione è quella in cui vanno a vivere durante l’anno scolastico i frequentanti di colore. Ragazzi ricchi o con borse di studio, ben vestiti, intelligenti e con unghie e capelli sempre al top. Tra questi c’è chi vuole diventare presidente, dottore o vincere un premio nobel per la letteratura. Insomma una scuola come tutte no?

La protagonista, o meglio, una delle protagoniste è Samantha, nata da madre nera e padre bianco che sogna di diventare una grande regista di documentari (che noia). Per via della sua pelle caramello viene presa di mira sia dai bianchi che dai neri e per questo ha il suo programma radiofonico di critica sociale che dà il nome all’intera seria.

Nelle prime stagioni il fulcro era proprio questo razzismo nei due sensi che si sviluppava in atti estremi e continui dibattiti tra i personaggi a sfondo politico ed economico. Una bella prospettiva perché per la prima volta, su una piattaforma importante e di rilievo come Netflix, si discuteva dei pregiudizi che persone di colore hanno verso chi è bianco e di come i muri si ergano nei due sensi, cercando disperatamente una parte dalla quale schierarsi. Forse è per questo che continuavo a guardarla, per il nuovo punto di vista che dava.

La terza stagione invece si concentra molto di più sulle vite degli studenti, le loro ambizioni, le paure, i punti di forza. Lo preferita alle altre proprio per la maggior chiarezza, non troppa, che rilasciava al pubblico. Forse avrebbero dovuto farci conoscere i personaggi fin da subito invece di catapultarci in un agglomerato di associazioni studentesche.

Di certo Netflix ha voluto con questa serie sperimentare nuovi metodi di narrazione sia nella gestione degli episodi singoli che delle stagioni intere.

Resta il fatto che, nonostante la trama inesistente e che emerge a piccolissimi tratti, dibattiti incomprensibili o per lo meno criptati, questa serie ha la capacità di calamitare la tua attenzione. Con la durata poi di venti minuti riesce persino a farti finire una stagione in giornata.

Ps certe volte mi immaginavo in quella scuola. Sarei stata troppo cazzuta tra quei figli di papà, lo so.

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